Quando si parla di disabilità, specialmente sui media di massa, ricorrono spesso stereotipi, luoghi comuni, pietismi, spettacolarizzazioni, sensazionalismi e vecchi automatismi figli di una cultura un po’ pigra e lenta al cambiamento.
Per fortuna, a mano a mano che si diffonde una diversa consapevolezza dei temi sociali, si diffonde anche una sensibilità diversa sul tema del linguaggio e disabilità. Una sensibilità che mette al centro la persona e non la patologia.
Sono nati da questo cambiamento alcuni importanti documenti che oggi possono guidare istituzioni e persone comuni nell’adozione di buone pratiche di comunicazione.
Il primo riferimento alto è la “Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità”, in inglese Convention on the Rights of Persons with Disabilities, in sigla CRPD. Firmata nel 2006 e recepita dall’Italia nel 2009. Un altro documento molto utile e chiaro è “Disabilità, iniziamo dalle parole”, pubblicato dall’Agenzia delle Entrate con il patrocinio del Ministero per le disabilità.
È recentissimo, invece, il lavoro che sta facendo l’Ordine dei Giornalisti con la Carta di Olbia, un decalogo in corso di scrittura ispirato ai principi della Convenzione ONU che fungerà da guida deontologica per una categoria che ha la grande responsabilità di rappresentare sui media le persone con disabilità.
La Carta recepisce la Convenzione ONU che riconosce la disabilità come «risultato dell'interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali che impediscono la loro piena partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri» e non come patologia.
Ma di cosa parliamo in concreto? Di seguito alcuni esempi tratti dal testo dell’Agenzia delle Entrate.
Alcuni principi di comunicazione inclusiva
«Persona con disabilità» o «persona disabile»? Quando è possibile, la soluzione migliore è chiedere alla persona con la quale si interloquisce come preferisce essere chiamata. Come linea guida è preferibile utilizzare la prima forma (linguaggio person first) al posto della seconda (linguaggio identity first, usato da alcuni attivisti che rivendicano l’uso della parola disabile spogliata da attributi negativi).
Il termine disabile e quelli che indicano i tipi di disabilità (paraplegico, cieco, sordo, ipovedente) andrebbero usati come aggettivi e non come sostantivi.
Il termine «disabili», al plurale, è invece tollerato, sebbene non sia preferibile. L’utilizzo di no- mi collettivi (ad esempio i sordi, i ciechi, gli autistici) tende a farci ragionare “per categorie”, e invece si tratta di gruppi di persone non omogenei ed è quindi improprio generalizzare. È importante infatti sottolineare l’unicità di ciascuna persona e rifuggire da descrizioni preconfezionate. In generale parliamo comunque di persone con disabilità, come suggerisce la Convenzione ONU, e non preoccupiamoci troppo delle ripetizioni.
È sbagliato dire affetto/a da disabilità, soffre di…
La disabilità non è una malattia, bensì una condizione, che potrebbe essere migliorata se mettessimo a disposizione della persona gli strumenti appropriati (un ingranditore, un software, un montascale, un servizio di assistenza e tanto altro).
Evitare pietismi
Tutte le parole che rimandano a un’idea di dolore e sofferenza, o le narrazioni che descrivono la persona con disabilità come “vittima”, sono sminuenti, poco rispettose e rinforzano una percezione negativa della disabilità. Pensiamo ad esempio all’uso dell’espressione «costretto sulla carrozzina». Piuttosto diciamo persona che usa la carrozzina.
I numeri dell'ISTAT
Secondo gli ultimi numeri dell’Istat, in Italia le persone con disabilità, sono oltre 3 milioni e 150mila, pari al 5,2% della popolazione. Di questi, oltre 316mila sono alunni con disabilità. In un istituto scolastico su cinque le strutture e le postazioni a loro dedicate risultano insufficienti.
Consulta il documento integrale “Disabilità, iniziamo dalle parole”
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